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Non incolpiamo i commercianti dei fallimenti dello Stato

L'episodio che ha visto sospendere la licenza a un bar dell'Isolotto per le frequentazioni socialmente pericolose, fa tremare i principi di uno Stato liberale e democratico

Fa discutere la notizia di ieri del bar dell’Isolotto cui hanno sospeso la licenza per cinque giorni perché è stato trovato a essere più volte ritrovo di “persone socialmente pericolose” e “pregiudicati“.

Il provvedimento del Questore ha applicato l’articolo 100 del  Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e su questo non c’è discussione, ha applicato la legge. Ciò che fa riflettere e spaventa, è la sostanza stessa di quest’azione e di quella legge. Perché lo Stato scarica sul cittadino, sul commerciante, sul barista le proprie responsabilità.

Cosa significa essere socialmente pericoloso? Avere dei carichi pendenti, avere delle colpe, qualcosa di riconosciuto e certificato da un tribunale? Chi giudica il tuo grado di pericolosità sociale?  Cos’è la pericolosità sociale? La predisposizione a compiere un determinato reato? Torniamo a concetti e pregiudizi di lombrosiana memoria… E quali sono gli indicatori, le fattispecie concrete della pericolosità sociale? La Giustizia, il procedimento penale, in un paese liberale, ha bisogno di criteri oggettivi e non di affidarsi a sensazioni e opinioni personali. E se per paradosso si potesse ottenere questo riconoscimento, se sei riconosciuto dalla Giustizia come socialmente pericoloso, perché non sei sottoposto a misure restrittive? Perché puoi muoverti per andare al bar? È forse questa colpa del barista? Chi doveva vigilare durante il tragitto, perché non viene sanzionato alla pari? Scattano poi le competenze di chi deve giudicare. Chi ti bolla e chi ti giudica come socialmente pericoloso? Deve essere il giudizio del barista a farsene carico? Si deresponsabilizza lo Stato e si fa carico al commerciante, con gli oneri e i rischi connessi.

Ma fa paura anche quel fare una colpa al negoziante di aver pregiudicati tra la clientela. Ché in via di principio, essere pregiudicato, dopo aver scontato la propria pena, non è una colpa giuridica. Hai compiuto un reato, sei stato processato e riconosciuto colpevole, hai scontato la tua pena, magari sei pure stato in carcere, ne sei uscito e adesso hai assolto il tuo debito con la Legge. Il carcere ha funzione rieducativa e di reinserimento nella società o no, come previsto dai massimi principi ispiratori della penalistica? E dunque perché non può il pregiudicato interagire con la propria comunità?

Quella stessa Giustizia che considera scontata la pena, sanziona chi tratta da uomo libero colui che ella stessa ha decretato libero. Chi è poi il pregiudicato? Cosa significa davvero, profondamente, essere pregiudicato? La storia ci insegna che ai loro tempi e nelle loro società Gramsci, Gandhi, furono pregiudicati. Fa paura il presupposto di eterna colpevolezza del pregiudicato e rimanda a tempi più bui dove le camice erano nere o rosse o sempre di una tinta. Contrasta con i presupposti cardine delle democrazie liberali.

E infine un’ultima considerazione. Che l’Isolotto, la zona di via Canova, sia nella vulgata comune (ma non per questo lo siano veramente), la periferia dove abbondano persone con un vissuto difficile, dove miseria, problemi sociali e marachelle con la Legge si intrecciano non è una novità. Né è novità questa nelle periferie delle grandi città. Se fai alveari di case popolari  tutti concentrati nel solito chilometro quadrato, non puoi certo aspettarti che in quella zona insieme a chi ha difficoltà, vengono a vivere le classi sociali più alte.  E questa non è grande scoperta, lo insegnava la scuola sociologica di Chicago già un secolo fa. Crei un ghetto, la tua condizione sociale diventa una profezia autoavverante, non crei interazione di classe. Forse a non concentrare il sottoproletariato urbano nella riserva indiana, ma a dargli dignità e interazione nelle zone bene dei signori, si eviterebbe il concentrarsi di collettivi socialmente pericolosi. Se l’edilizia popolare non si chiudesse in via Canova, alle Piagge o in altre periferie alveare, ma si mettesse anche tra le ville di Pian dei Giullari, di Coverciano e di San Domenico, tra i palazzi del centro e di piazza Beccaria, per non concentrare il problema e poi lamentarsene. La colpa di chi c’è in quella periferia, non è del barista.

Uno Stato che scarica colpe e responsabilità sul cittadino, senza ricordarsi di esserne servo e non padrone, di quel cittadino, è uno Stato che ha fallito nel suo presupposto di  liberalità e democrazia.

Carlo Casini

 

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